Ieri sono stato al teatro della Murata di Mestre.
In programma Macbeth di Shakespeare, raccontato a braccio, con inserimenti di lettura nei tratti salienti.
A me è piaciuto molto.
L’idea di offrire una versione che percorra una via di mezzo tra didattica e teatro, mi è parso piacevole, sufficientemente profondo – non troppo, ma vista la scelta, difficile scavare di più: lo vedrei bene come sprone alla lettura dell’opera, nelle scuole -; una guida che accompagna negli abissi del dramma, nei punti nodali in cui metafore, credenze, lotte interiori, trasformano le persone in furiose bestie feroci, fino all’appassimento e all’annientamento di sé.
La bramosia di potere si paga a caro prezzo, fino all’annullamento della ragione, fino all’esordio di una follia allucinatoria.
Il tutto senza effetti speciali, senza travestimenti o trucchi scenici.
Il potere della parola, la contorsione della psiche, il dualismo che distorce l’interezza, a quattrocento anni di distanza, sopravvivono ancora, vividi e attuali.
Se accettassimo ciò che siamo – tutto ciò che siamo – senza giudizio, senza scartare – prendendone cioè atto – ciò che abita le profondità di ognuno di noi, il bene e il male sarebbero ciò che sono: parti che convivono, e che soltanto ri-conoscendole, senza credersene immuni, finiremo di esserne vittime.
Questo forse voleva dirci Shakespeare.